Dall’Everest ai grattacieli, l’impresa
di pulizie che scala il tetto di Milano

Racconta uno degli «uomini ragno»: « Milano dall’alto è piccolina: la gente alza la testa e ci fotografa,chi lavora negli uffici ci saluta e scherza con noi»

Sveglia all’alba, nello zainetto bottiglie da due litri di acqua ghiacciata, sali minerali, mele e banane. E prima di indossare l’imbragatura, crema solare spalmata a chili sui volti abbronzati. L’effetto specchio delle pareti di vetro e acciaio della torre Unicredit moltiplica per due il riflesso del sole. Benché gli uomini ragno anticipino l’ombra, in una corsa contro il tempo, mentre si calano appesi a corde sottili dal tetto, a 140 metri d’altezza, il grattacielo su cui svetta la torre di Cesar Pelli sprigiona temperature subtropicali. Ma cosa sono 140 metri a strapiombo e 50 gradi all’ombra per gente che ha scalato le vette del Tetto del Mondo, come Iliyan, 46anni, guida alpina con occupazioni saltuarie in Bulgaria. Due mesi fa, con Vasilev, ha raggiunto il compagno di scuola Dimitar Harizanov per entrare nella squadra degli arrampicatori, operai specializzati che lavorano in quota, sospesi, senza mai toccare terra con i piedi. O per Dario, 39 anni, operaio metalmeccanico in mobilità, e per Fabio, salito dalla Calabria per fare il muratore in un’azienda travolta dalla crisi, e ancora per Luca, 46 anni, di Cernusco, che fino al 2007 installava ascensori per una multinazionale americana: «Tutti licenziati in quarantotto ore».
Squadra multietnica
Il ritrovo è al piccolo bar di piazza Gae Aulenti. «Siamo una squadra multietnica», dicono ridendo gli uomini ragno. Tre bulgari, quattro italiani, due filippini, un romeno. «Questo è un gran bel lavoro», ripetono e sono sinceri. Entro sabato finirà il maquillage con acqua sapone e olio di gomito del complesso che s’affaccia su piazza Gae Aulenti. Tre mesi di lavoro in dieci, otto appesi alle corde e due capisquadra a vigilare dall’alto, laddove i cavi sono agganciati al tetto, per far risplendere a nuovo i grattacieli: 77 mila metri quadrati di vetri. «Tocca a loro, preposti alla sicurezza, intervenire se qualcuno ha problemi, non c’è 118 né vigili del fuoco – spiega Davide Spelta, il direttore tecnico dell’azienda Rigger -. Una volta al mese si fanno esercitazioni di soccorso, lavorare in sicurezza per noi è una priorità». Hanno procedure standardizzate, una checklist come i piloti che si ripete ad ogni discesa, l’allerta sempre alta l’uno con l’altro, nessuno come loro conosce i segni di un calo di pressione. «Non sono ammessi errori, non c’è spazio per distrazioni».
Rowendell Acoba, 36 anni, filippino, faceva le pulizie per la stessa azienda, prima che nascesse il ramo degli arrampicatori. «Sono felice, guadagno bene, ho raddoppiato lo stipendio – racconta -. Avevo paura, in famiglia avevano paura. Ma le vertigini passano e non si lavora se c’è vento e pioggia. Mi piace, tanto. Milano dall’alto è piccolina. La gente alza la testa e ci fotografa, chi sta dentro gli uffici ci saluta e scherza con noi».
I corsi con le guide alpine
I grattacieli a specchi «hanno inventato il vento a Milano», aggiunge Spelta. E i Rigger boys confermano: «Sembra di stare in un canyon, quando arriva il vento l’ordine è calarsi a terra». Non bastano le misure di sicurezza, le imbragature che fanno invidia a chi ha scalato le vette dell’Himalaya. Entro sabato devono finire la «vela» del palazzo Unicredit, la parete più difficile. Ma già sanno che poi aggrediranno una nuova vetta, la torre Solea, una di quelle residenziali nell’area ex Varesine di Porta Nuova. Spelta è capitano di marina e applica nella Rigger le regole di sicurezza apprese sulla Amerigo Vespucci: «Eliminare le variabili – dice -. L’azienda si occupava di pulizie industriali, prima di aprire un nuovo ramo con gli arrampicatori ho lavorato con artigiani di ogni tipo, per capire rischi, pericoli. Siamo i primi che con gli arrampicatori abbiamo restaurato uno stabile in marmo di via Borgogna senza ponteggi né piattaforme». Man mano che avanza l’estate, gli uomini ragno anticipano l’orario di inizio delle loro scalate. Uniti come una squadra di rugby. «Come alpinisti – corregge Luca -. Per questo mestiere si fanno corsi con guide alpine. Quando rimasi disoccupato, e mia moglie dopo di me, avendo arrampicato per trent’anni, pensai di sfruttare la passione per la montagna e andai a lavorare in quota come elettricista». I tralicci dell’Enel in Valtellina per un anno, poi il recupero persone e la manutenzione di un percorso sospeso in un parco avventura. «Ma volevo tornare dai miei figli e un anno fa sono entrato nella squadra». Il 17 giugno spegnerà la prima candelina della nuova vita. «Viva i grattacieli, viva tutto», dice Luca congedandosi.
La forza nelle gambe
Sergiu è il più giovane della squadra, ha 28 anni, è romeno. Faceva il muratore, poi l’hanno lasciato a casa. «Sono rimasto fermo un anno, finché ho trovato posto con loro. Ho fatto il corso e ora qui c’è la mia vita. Tanti, quando arriviamo a terra, ci chiedono come facciamo con quella piccola corda a rimanere sospesi, dieci millimetri di diametro». È pomeriggio inoltrato quando i Rigger si ritrovano in piazza. Sono freschi come quando sono saliti. Mostrano i bicipiti scherzando e poi svelano un segreto: «Nell’alpinismo sono le gambe che lavorano, le braccia servono solo a tenere l’equilibrio».
 
Articolo tratto da corriere.it
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