Archivi di Stato verso il collasso Così l’Italia perde la memoria

Aperture a singhiozzo, libri disseminati tra le sedi, impiegati in fuga per la pensione

di Daniela Uva

Martedì mattina, sede dell’archivio di Stato di Firenze. Entrare e consultare uno dei preziosissimi documenti custoditi è impossibile: dallo scorso 10 giugno la struttura è chiusa al pubblico due giorni alla settimana. Il motivo? Manca il personale e quindi l’orario dev’essere necessariamente ridotto. A Caserta, se possibile, le cose vanno peggio perché l’archivio è inaccessibile da due anni e così i ricercatori possono solo presentare una domanda per consultare il materiale in formato pdf.

La situazione è di emergenza in tutto il Paese fra aperture a singhiozzo, libri disseminati fra diverse sedi e una forza lavoro in continua contrazione. Come se non bastasse molti archivi sono in affitto da privati, perché i palazzi pubblici che dovrebbero ospitarli sono inadeguati o in costante ristrutturazione. E così va in fumo una marea di denaro dei contribuenti.

MALE COMUNE

Succede, per esempio, a Genova dove l’archivio storico è ormai chiuso da 15 anni mentre i lavori per rimetterlo a nuovo sono fermi dal 2004. Il risultato è che migliaia di documenti di inestimabile valore sono chiusi in un capannone industriale che alle casse statali finora è costato 113 milioni di euro. Eclatante è anche il caso del polo archivistico di Morimondo, non lontano da Milano. Si trova in affitto dal 2011 in un edificio di proprietà di una finanziaria. Perfino la direzione centrale di Roma deve pagare un canone di locazione: 500mila euro l’anno. Sono 149 le sedi nazionali degli archivi di Stato, di queste 91 sono in affitto per una cifra che ogni anno si aggira su quindici milioni di euro. «La situazione certamente più difficile riguarda l’archivio centrale della Capitale – conferma Federico Trastulli, coordinatore nazionale Uilpa Mibac -. L’immobile è una sede storica monumentale di grande pregio e la mole di documenti da conservare è davvero enorme. Quindi il canone pagato è altissimo».

Ma il danno non è solo erariale, perché a rischio ci sono milioni di documenti, sentenze, piante catastali, leggi, regolamenti. Insomma, la memoria storica del Paese. Oltre che il lavoro di migliaia di addetti. Basti pensare che a Pontremoli l’archivio è ospitato nel complesso Santissima Annunziata, ma manca la sicurezza antincendio e così il pubblico non può entrare mentre i quattro dipendenti sono costretti a lavorare a Massa. Mentre a Cuneo i locali sono inagibili da anni perché non a norma, con le stanze senza elettricità e il riscaldamento inesistente. E così parte dei documenti, e degli addetti, è stata trasferita a Torino. «I finanziamenti non sono sufficienti e quindi non è possibile un adeguato ricambio del personale commenta Cinzia Cremonini, docente di storia moderna all’università Cattolica di Milano -. Ormai da anni la storia, e la ricerca storica, vengono percepite come irrilevanti. Trent’anni fa gli archivi erano molto frequentati, oggi le cose sono molto diverse. La maggior parte dei cittadini ignora l’esistenza di questi luoghi o li immagina come chiusi e inospitali. Invece sono spesso molto belli, come per esempio nel caso di Venezia e Torino. E custodiscono la nostra memoria».

Chiunque voglia guardare con i propri occhi sentenze della magistratura, atti del governo, piante dei palazzi e delle città dal medioevo a oggi deve rivolgersi proprio agli archivi di Stato. Che per legge sono presenti in tutti i capoluoghi di provincia e in centri più piccoli di particolare interesse culturale. Il materiale è conservato in 1.500 chilometri di scaffali, naturalmente suddivisi fra le diverse sedi. Solo quella centrale di Roma contiene 150 chilometri di libri, carte e pergamene vecchie anche di mille anni.

IL PERSONALE SCARSEGGIA

Eppure a prendersi cura di questo patrimonio ci sono sempre meno professionisti. «Attualmente gli archivi di Stato rappresentano il vero tallone d’Achille del ministero della Cultura – conferma Trastulli -. Perché conservano la memoria storica della nostra collettività ma il personale è davvero poco rispetto alle reali esigenze. Basti pensare solamente alla digitalizzazione del patrimonio archivistico, che potrebbe coinvolgere centinaia di unità garantendo fruibilità e, al tempo stesso, conservazione del materiale evitando la deperibilità dei pezzi». E, invece, proprio su questo fronte l’Italia è molto indietro. Mentre chi va in pensione non viene sostituito. I numeri parlano chiaro: l’organico di diritto, per tutto il Mibac, è fissato in 19.052 unità, quello di fatto è invece di solo 15mila persone. «Ma per far funzionare bene il ministero dovremmo ritornare ai 25 o 27mila dipendenti», dice ancora il sindacalista. Se però si considerano solo gli addetti agli archivi si scopre che la forza lavoro è composta da 2.700 persone che però, a partire dal primo gennaio, saranno solo 1.200. Proprio per effetto dei pensionamenti. E così un sistema complesso e molto frammentato dal punto di vista territoriale rischia il collasso. «Proprio per questo chiediamo da tempo assunzioni mirate: di esecutivi, funzionari e dirigenti – va avanti Trastulli -. Vorremmo azioni concrete, che mettessero in sicurezza i luoghi di lavoro, e investimenti sulla digitalizzazione del patrimonio». Un’operazione necessaria, ma per la quale i tempi sono ancora lunghi.«La digitalizzazione è diventato il mantra di questi tempi, ma sinceramente non si vedono molto gli esiti di processi innovativi», ammonisce l’esperto.

I RISCHI

Nel frattempo di questo caos c’è anche chi cerca di approfittare. È successo a Como dove, fra il 1983 e il Duemila, 592 documenti storici e trenta manifesti pubblici sono stati trafugati e poi venduti su internet. Il valore commerciale è di oltre 60mila euro, quello storico è invece inestimabile. Per fortuna il tesoro è stato ritrovato e recuperato dai carabinieri del Nucleo tutela patrimonio culturale di Torino. Restano però forti preoccupazioni sul futuro di questi luoghi della memoria. Come dimostra anche il caso di Milano dove, qualche anno fa, i dirigenti hanno fatto fatica anche a pagare le bollette. «Queste situazioni estreme dipendono dagli stanziamenti per la gestione ordinaria, così come dai tempi di accredito dei fondi da parte del Mef – dice ancora Trastulli -. Naturalmente la colpa è anche della capacità di spesa non sempre eccellente e dei debiti accumulati nel tempo e mai smaltiti per problemi di carattere gestionale». Nel frattempo gli addetti ancora in servizio si sforzano di mantenere aperte le sedi, anche a costo di sacrifici personali.

«Un tempo questi luoghi erano aperti dalle 8 del mattino alle 18 – ricorda Cremonini -, oggi lavorano necessariamente a singhiozzo perché non ci sono alternative. I problemi sono generalizzati, ma più sentiti in provincia dove alcune sedi rischiano di scomparire insieme con la storia di quei territori». Un rischio da evitare a ogni costo. «Se chiudessero gli archivi di Stato si limiterebbero per sempre la ricerca e l’approfondimento – avverte la docente -. La storia ha sempre bisogno di essere studiata e ripensata, soprattutto alla luce dei cambiamenti propri del mondo contemporaneo».

LE PROMESSE

A questo punto c’è da sperare che il ministro della Cultura Dario Franceschini, che da tempo ha promesso più ossigeno per questi enti, mantenga la parola. «Il ministro ha ribadito di voler rivitalizzare tutti i settori mediante assunzioni, cosa che apprezziamo ma che giudicheremo all’esito dei concorsi – conclude Trastulli -. Dobbiamo assumere, puntare sulla sicurezza dei luoghi di lavoro e digitalizzare. Serve un piano, un’idea complessiva e stanziamenti importanti».

Fonte: http://www.ilgiornale.it/news/archivi-stato-verso-collasso-cos-litalia-perde-memoria-1799660.html

 

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